Consiglio di Stato Sez. VI n. 837 del 25 gennaio 2023
Urbanistica.Pavimentazione area allo stato naturale
Secondo quanto disposto dell'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380-2001 sono da intendersi quali «interventi di nuova costruzione» quelli che comportano «la trasformazione in via permanente di suolo inedificato». La pavimentazione di un'area allo stato naturale non può in alcun modo configurarsi come intervento di manutenzione (ordinaria o straordinaria), consolidamento statico o restauro conservativo, trattandosi di opera edilizia nuova, e non già di intervento trasformativo di manufatto già esistente.
Pubblicato il 25/01/2023
N. 00837/2023REG.PROV.COLL.
N. 07800/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7800 del 2016, proposto da
Finprisma S.r.l., in persona del Legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Enzo Barillà, Enrico Bertoni e Lorenzo Grisostomi Travaglini, con domicilio eletto presso lo Studio Lorenzo Grisostomi Travaglini in Roma, via Civitavecchia n. 7;
contro
Italfond S.p.A., in persona del Legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avvocati Giovanni Muzi, Angelo Ravizzoli e Rossana Colombo, con domicilio eletto presso lo Studio Giovanni Muzi, in Roma, viale Regina Margherita n. 42;
Comune di Bagnolo Mella, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima) n. 00551/2016, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Italfond S.p.A.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 dicembre 2022 il Cons. Marco Poppi e uditi per le parti gli Avvocati presenti come da verbale;;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
L’odierna appellata Italfond S.p.A., titolare di un’acciaieria situata in Comune di Bagnolo Mella, in virtù di permesso di costruire del 12 maggio 2008, ampliava il proprio capannone industriale e realizzava una nuova palazzina adibita a deposito, un nuovo capannone per stoccaggio, un nuovo magazzino, un ponte su un ramo secondario del Vaso Molone e due nuove vasche di stoccaggio delle scorie con relativo carro ponte.
A seguito di sopralluogo eseguito da personale del Settore Tecnico comunale il 12 giugno 2013, l’amministrazione, con ordinanza n. 113 del 16 dicembre 2014, ingiungeva la demolizione di alcune opere realizzate abusivamente nella parte sud dello stabilimento (mappale n. 31 confinante con la proprietà dell’odierna appellante Finprisma S.r.l.) all’interno delle fasce di rispetto di alcuni canali del reticolo idrico minore (Vaso Moloncello e Serioletta Mazzola), consistenti in un terrapieno con sovrastante pavimentazione in calcestruzzo, avente altezza pari a circa 1,50 metri e superficie pari a circa mq. 4.578.
La realizzazione in questione costituisce oggetto di un parallelo contenzioso civile fra le medesime parti (Finprisma e Italfond) nell’ambito del quale è contestata la realizzazione, in violazione delle distanze legali, del terrapieno, di una pensilina per il parcheggio, di un’autorimessa e di un capannone (i cui esiti saranno di seguito richiamati).
Avverso la citata ordinanza n. 113/2014, Italfond proponeva ricorso innanzi al Tar Lombardia, Sezione staccata di Brescia lamentando, in sintesi, l’inesistenza dell’abuso contestato ed allegando che la pavimentazione del piazzale si sarebbe resa necessaria per adempiere alle prescrizioni imposte dall’ARPA in conferenza dei servizi, in tema di raccolta e separazione delle acque meteoriche.
In detta sede veniva, altresì, negata la sopraelevazione del piano di campagna allegando che da tempo immemore il piano di campagna sarebbe consolidato nello stato attuale.
Il giudizio di primo grado veniva definito prendendo atto, quanto alla definizione dello stato dei luoghi, dei contenuti della CTU eseguita nell’ambito del contenzioso civile, acquisita agli atti del giudizio ed espressamente ritenuta utile ai fini della decisione dal Tar che la richiamava per quanto di rilievo sotto il profilo amministrativo.
In particolare il Tar affermava che dal citato esito istruttorio era possibile desumere che:
«(a) in base alle fotografie aeree del periodo 1964-2011 (all. H) e all’aerofotogrammetrico del 1995 (all. I), il piazzale della ricorrente posto in corrispondenza del confine ovest della controinteressata presenta una sopraelevazione, che è conseguenza della realizzazione, in prossimità del muro di cinta, di un capannone (lett. e) con relativa pensilina (lett. f), di un’autorimessa (lett. d), e del parcheggio pertinenziale (lett. b) con relative pensiline (lett. c);
(b) per quanto riguarda il periodo di realizzazione, il capannone (lett. e) si colloca tra il 1966 e il 1975, la relativa pensilina (lett. f) intorno al 1989, l’autorimessa (lett. d) tra il 1975 e il 1994, il parcheggio pertinenziale (lett. b) tra il 2003 e il 2007, e le relative pensiline (lett. c), nella configurazione attuale, intorno al 2012;
(c) anche il piazzale della ricorrente posto in corrispondenza del confine sud della controinteressata, ossia quello specificamente indicato nell’ordinanza di demolizione, dove si trova la zona di accumulo dei materiali ferrosi (lett. h), presenta un dislivello, prodottosi presumibilmente nel periodo 1994-2007, come rilevabile dalle fotografie aeree e dall’aerofotogrammetrico del 1995;
(d) non vi sono pratiche edilizie per il capannone (lett. e) e la relativa pensilina (lett. f), né per l’autorimessa (lett. d), né per il parcheggio pertinenziale (lett. b) e le relative pensiline (lett. c), e neppure per la zona di accumulo dei materiali ferrosi (lett. h);
(e) i carotaggi effettuati hanno evidenziato un significativo spessore di materiale di riporto lungo il confine, da un minimo di 1 metro (nel parcheggio pertinenziale – lett. b) fino a un massimo di 2,65 metri (nella zona di stoccaggio temporaneo – lett. l). La composizione del materiale di riporto è alquanto eterogenea, e comprende ghiaie e sabbie limose, laterizi, materiali ferrosi, scorie di acciaieria in blocchi, e materie plastiche. Per effetto del materiale di riporto il dislivello tra i due fondi varia da 0,40 metri (nel parcheggio pertinenziale - lett. b) a 1,41 metri (nella zona di accumulo dei materiali ferrosi - lett. h);
(f) il muro di cinta (realizzato intorno al 1950), che solo in alcuni punti supera i tre metri di altezza, presenta diverse specchiature sfondate e una perdita di verticalità, con pendenza verso la proprietà della controinteressata. Poiché sul lato della ricorrente il terreno è più elevato di circa 1,40 metri, la causa degli sfondamenti è da attribuire alla movimentazione del terreno, mentre la causa della pendenza è riconducibile alla pressione del materiale di riporto. L’onere per il ripristino del muro di cinta è stimato in € 60.000 (Iva esclusa);
(g) nella zona di stoccaggio temporaneo (lett. l) il confine non è segnato dal muro di cinta ma da una scarpata, con un dislivello rispetto al fondo della controinteressata pari a circa 1,80 metri. L’attuale configurazione del terreno risale al periodo 2007-2009;
(h) nessuno dei manufatti e dei terrapieni sopra descritti rispetta la distanza minima di 5 metri dal confine, prevista attualmente dagli art. 23 e 24 delle NTA del PGT per gli ambiti produttivi industriali speciali (negli strumenti urbanistici previgenti il distacco obbligatorio era più ampio). Non è rispettata neppure la distanza minima di 4 metri dal reticolo idrico minore».
Richiamato nei suesposti sensi l’esito istruttorio, il giudice di prime cure esprimeva le seguenti considerazioni:
«(bb) la circostanza di fatto che emerge chiaramente dalla CTU è la presenza di un dislivello artificiale tra i due fondi, realizzato mediante opere che non sono state espressamente assentite, in anni non remoti, e comunque certamente dopo il 1967;
(cc) alcuni dettagli della CTU possono prestarsi a osservazioni critiche. In particolare, a proposito dell’aerofotogrammetrico del 1995, la quota più bassa pari a 81,6 (a sud della zona di accumulo dei materiali ferrosi - lett. h) non è quella più vicina al confine, e dunque non è idonea a dimostrare che il terrapieno sul confine non era presente. Tuttavia, l’interpretazione della successione delle foto aeree appare nel complesso corretta, e sostenuta dai risultati dei carotaggi, e dunque la tesi della formazione successiva del terrapieno resta valida anche in questo punto del confine, oltre che negli altri esaminati. La sopraelevazione del piano di campagna originario è chiaramente connessa al progressivo utilizzo da parte della ricorrente delle aree più vicine al confine, e deve pertanto essere considerata come una conseguenza della manipolazione del terreno;
(dd) una volta stabilito questo, però, non si sono ancora concretizzati i presupposti che giustificano un’ordinanza di demolizione. In realtà, la realizzazione di un terrapieno di consistenti dimensioni, come è certamente quello in esame, costituisce un intervento edificatorio normalmente praticabile in tutte le aree industriali, dove esiste la necessità di disporre di ampi spazi esterni, complementari all’attività produttiva e in grado di evitare la dispersione di inquinanti nel suolo. A questo principio sembra essersi ispirata l’ARPA con la prescrizione del 15 novembre 2007 a proposito della rete di raccolta e di separazione delle acque meteoriche, anche se si tratta di un indirizzo non specificamente riferibile alle aree dove sono localizzati gli interventi abusivi. Un’applicazione generale del suddetto principio è invece rinvenibile nell’art. 24.3 delle NTA del PGT, che, con riguardo agli ambiti produttivi industriali speciali, consente la realizzazione di aree a parcheggio anche in struttura coperta, non computabili nella SLP e nella superficie coperta ai fini del rispetto dei parametri di zona;
(ee) la realizzazione di aree a parcheggio (da intendere estensivamente come piazzali o aree di manovra e di lavoro esterne ai capannoni industriali) implica la facoltà di rimodellare il terreno per renderlo omogeneo e utile allo scopo. Anche questo segmento di attività edificatoria dovrebbe essere disciplinato dagli strumenti urbanistici, in particolare per fornire certezza sul passaggio dal semplice movimento terra al vero e proprio terrapieno. Tuttavia, la mancanza di una specifica disciplina non rende inammissibile questa tipologia di interventi. Spetterà invece agli uffici comunali la definizione, caso per caso, di limiti ragionevoli;
(ff) riassumendo, la realizzazione di piazzali è un’attività edilizia sottoposta a permesso di costruire, a maggior ragione se associata alla rimodellazione del piano di campagna e alla creazione di un terrapieno, ma risulta normalmente conforme alla disciplina urbanistica delle zone industriali;
(gg) sotto questo profilo, gli abusi edilizi sono quindi sanabili mediante accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 6 giugno 2001 n. 380. La sanabilità si estende anche alla distanza minima dal confine, in quanto, se la superficie trasformata in piazzale non rileva ai fini del rispetto dei parametri di zona, allo stesso modo non rileva il volume del materiale di riporto;
(hh) il proprietario confinante non ha quindi un’aspettativa tutelata all’immodificabilità delle quote del fondo del vicino, ma può opporsi a tutti gli inconvenienti che derivano dalla nuova sistemazione del terreno (danni al muro di cinta, scorrimento delle acque meteoriche, infiltrazioni, franamenti). L’esatta individuazione delle forme di tutela civilistiche ricade nella giurisdizione ordinaria, mentre l’amministrazione è tenuta ad adottare le prescrizioni tecniche indispensabili per prevenire danni alle persone o alla stabilità delle costruzioni;
(ii) devono essere trattati a parte gli altri problemi indicati dal Comune e richiamati nella CTU, ossia il sospetto di rifiuti nel terrapieno e il rischio di interferenze tra il terrapieno e i canali del reticolo idrico minore. Queste situazioni coinvolgono interessi pubblici di natura ambientale e idrologica, che hanno un rilievo superiore rispetto agli ordinari interessi urbanistici. Nessuna sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001 potrà evidentemente essere concessa se venissero accertati inquinanti tra i materiali utilizzati per il terrapieno, ovvero se la pavimentazione del piazzale coprisse in realtà una discarica, e lo stesso vale nel caso in cui fosse dimostrato che la presenza del terrapieno ostacola il regolare deflusso delle acque;
(jj) è però necessario che su questi aspetti il Comune intervenga con un provvedimento mirato, sulla base di ulteriori approfondimenti tecnici».
Sulla base delle illustrate premesse il Tar definiva il giudizio con sentenza n. 551 del 19 aprile 2016 con la quale, accogliendo parzialmente il ricorso, annullava il provvedimento impugnato facendo, tuttavia, salvo il potere del «Comune di adottare misure repressive e ripristinatorie qualora emergessero criticità a proposito dei materiali di riporto e della funzionalità del reticolo idrico minore» e onerando Italfond della presentazione, nel termine di 120 giorni, di una domanda di «accertamento di conformità estesa allo studio di questi problemi».
Finprisma, impugnava la sentenza con ricorso depositato il 14 ottobre 2016 lamentando, con un unico motivo di ricorso, la contraddittorietà fra le premesse e le conclusioni del Tar che (i) riteneva comprovata la realizzazione del terrapieno; (ii) escludeva che il terrapieno fosse stato realizzato in forza di un titolo abilitativo; (iii) affermava che la realizzazione del manufatto richiedesse il previo rilascio di un permesso di costruire riconoscendo, tuttavia, la sanabilità dell’intervento e, quindi, l’insussistenza dei presupposti legittimanti l’adozione della misura demolitoria.
Italfond, confutava le avverse censure impugnando incidentalmente la decisione di primo grado con atto depositato il 27 ottobre 2016 deducendo la contraddittorietà delle statuizioni di primo grado in ordine alla affermata rilevanza urbanistica della superficie realizzata da considerarsi, invece, quale opera manutentiva sanabile, per ammissione dello stesso Tar, ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, nonché, l’erroneità della ritenuta esistenza del contestato innalzamento del piano di campagna.
Appellante e appellata depositavano memoria conclusionale il 18 novembre 2022 replicando alle avverse difese con memorie depositate il successivo 28 (Italfond) e 29 (Finprisma) novembre.
All’esito della pubblica udienza del 20 dicembre 2022 la causa veniva decisa.
Devono in via preliminare respingersi le eccezioni pregiudiziali sollevate da Italfond.
Nessun rilievo, nei sensi invocati dall’appellata, riveste la circostanza che «l’aspettativa al bene della vita vantata da FINPRISMA ha trovato una sua definizione sia in sede di decisione TAR Brescia n 326/2019 [resa all’esito di successivi sviluppi della vicenda che saranno di seguito richiamati] in punto di materiali presenti al di sotto del “terrapieno-pavimentazione” (piazzale di cui alla lett H confine sud) che del Tribunale e Corte d’Appello di Brescia» atteso che avverso entrambe le decisioni richiamate pende impugnazione.
Deve, inoltre, disattendersi la tesi di parte appellata per la quale il fondamento della impugnata sentenza del Tar, indicato nella affermata conformità dell’intervento «alla disciplina urbanistica delle zone industriali (e, di riflesso, sanabile)» e nella ritenuta irrilevanza delle superfici trasformate in piazzale «ai fini del rispetto dei parametri di zona», non sarebbe contestato con la conseguenza che «la decisione mantiene autonomi profili non contestati nel rispetto del principio di specificità dei motivi di impugnazione, posto dall’art. 101, comma 1, c.p.a.».
Come, infatti, si argomenterà, il capo di sentenza è censurato dall’appellante che rinviene in dette affermazioni il fondamento del dedotto vizio di contraddittorietà.
Infondata è, infine, l’eccepita inammissibilità del ricorso per omesso deposito di copia della sentenza impugnata nel termine di cui all’art. 94 c.p.a. atteso che la sentenza costituisce oggetto di deposito come documento n. 27.
Quanto al merito della controversia, deve in premessa rilevarsi che a seguito della pubblicazione della sentenza impugnata, e degli sviluppi provvedimentali imposti dalla decisone, la complessiva vicenda che vede contrapposte le parti del presente giudizio costituiva oggetto di ulteriori contenziosi promossi per iniziativa di Italfond.
L’odierna appellata, infatti:
- con ricorso iscritto al n. 225/2017 R.R., preso atto della sentenza qui impugnata, che accertava «la sanabilità dell’area pavimentata», nonché, della «verifica straordinaria richiesta dal Comune ad ARPA per accertare il sottosuolo dell’area», impugnava la Relazione di verifica dell’Agenzia del 2 dicembre 2016 e la determinazione della stessa del 21 dicembre 2016 di «integrazione alla Relazione Finale di verifica ispettiva straordinaria»;
- con ricorso n. 298/2017 R.R. impugnava l’ordinanza del Sindaco di Bagnolo Mella n. 7 del 23 febbraio 2017 «di rimozione rifiuti e avvio allo smaltimento e/o recupero, ovvero, messa in sicurezza permanente» adottata a seguito della Relazione ispettiva di ARPA;
- con ricorso iscritto al n. 345/2018 R.R., impugnava la determinazione comunale n. 9 del 31 gennaio 2018, di «conclusione iter di CdS decisoria di valutazione piano messa in sicurezza correlato a ordinanza n. 7/2017».
I suddetti tre ricorsi venivano riuniti e decisi con sentenza n. 326 dell’8 aprile 2019 che dichiarava inammissibile il primo e respingeva il secondo e il terzo.
Avverso detta sentenza pende appello iscritto al n. 4937/2019.
Per esigenze di completezza espositiva merita un ultimo preliminare e sintetico richiamo anche il pendente contenzioso civile, a più riprese evocato dalle parti a sostegno delle contrapposte posizioni.
Finprisma agiva innanzi al Tribunale civile di Brescia per ottenere la demolizione entro 10 metri dal proprio confine del terrapieno con sovrastante pavimentazione in calcestruzzo realizzata da Italfond (medesima opera oggetto di impugnazione nel giudizio definito dal Tar con la sentenza qui impugnata).
Il Tribunale, con sentenza n. 117/2020 condannava Italfond ad arretrare di metri 5 dal confine di proprietà limitatamente ad una porzione del terrapieno/piazzale contestato.
La sentenza di primo grado veniva confermata dalla Corte d’Appello di Brescia con sentenza n 645/2022 avverso la quale Italfond agiva innanzi alla Corte di Cassazione con ricorso iscritto al n. 18139/2022, tuttora pendente.
Quanto al merito del presente appello, con un unico motivo di appello, la ricorrente deduce la «violazione artt. 31 e 36 D.P.R. 380/2001; contraddittorietà; extrapetizione; violazione art. 34, comma 2, c.p.a.; falsa applicazione art.24.3 NTA PRG di Bagnolo Mella».
Finprisma lamenta che la sentenza conterrebbe «una abnorme statuizione anticipata sulla sanabilità dell’opera» del Tar che annullava l’ordine di demolizione impugnato nonostante l’insussistenza di qualsivoglia titolo edilizio abilitante la realizzazione del solettone in cemento armato costituente la pavimentazione del terrapieno (circostanza comprovata dalla CTU esperita in sede civile): opera che, si afferma, sarebbe di «natura artificiale» e di «non remota» realizzazione e che, in ragione della consistenza della stessa, non potrebbe che essere assoggettata al regime del permesso di costruire.
Premette ulteriormente l’appellante che la medesima CTU rilevava la presenza nei materiali di riporto utilizzati per la realizzazione della piattaforma di «scorie e polveri di fonderia»: profilo non ignorato, ancorché non esaustivamente affrontato dal Tar (e non decisivo ai fini della presente controversia) che, come già rilevato, nutriva un «sospetto» circa la presenza «di rifiuti nel terrapieno e il rischio di interferenze tra il terrapieno e i canali del reticolo idrico minore» affermando la natura ostativa di tali emergenze, se comprovate, alla concessione della sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001.
L’appellante, «per completezza» censura ulteriormente la sentenza nella parte in cui, una volta richiamato l’art. 24.3 delle NTA nella parte in cui riconosce, in ambiti produttivi industriali, la possibilità di realizzare aree di parcheggio «anche in struttura coperta a servizio dell’attività esistente» escluse «dal computo della s.l.p. e della superficie coperta ai fini della verifica del rispetto dei parametri di zona», perviene alla conclusione che la realizzazione di aree di parcheggio «implica la facoltà di rimodellare il terreno per renderlo omogene e utile allo scopo» estendendo la sanabilità di tali interventi «alla distanza minima dal confine, in quanto, se la superficie trasformata in piazzale non rileva ai fini del rispetto dei parametri di zona allo stesso modo non rileva il volume del materiale di riporto».
L’appello principale è fondato.
Preliminarmente deve procedersi ad una perimetrazione dell’oggetto del presente giudizio superando le ridondanti e non sempre pertinenti narrative delle parti, a tratti sconfinanti in ambiti oggetto del parallelo giudizio civile.
In primis deve rilevarsi che l’opera oggetto dell’ordinanza di demolizione n. 113 del 16 dicembre 2014, impugnata in primo grado, veniva realizzata in difetto di titolo abilitativo.
Il titolo, infatti, non può identificarsi nel permesso di costruire n. 9075 del 10 marzo 2008 con il quale, come anticipato, veniva assentita la realizzazione della palazzina per deposito provini; l’ampliamento di un capannone esistente; di un capannone per attività di stoccaggio, marchiatura, preparazione alla spedizione; di un capannone quale magazzino delle siviere; di un ponte sul ramo secondario del Vaso Molone, infine, di due vasche di stoccaggio per il trattamento delle scorie.
Può considerarsi accertata ulteriormente la natura artificiale del terrapieno/piazzale realizzato con materiali di riporto, come emerge dalla documentazione fotografica prodotta in giudizio che mostra la consistenza del terreno accertata a seguito dei carotaggi eseguiti sul fondo.
Deve, altresì, evidenziarsi che, avuto riguardo alle caratteristiche dimensionali del manufatto, l’intervento in questione determina una trasformazione urbanistica ed edilizia, tendenzialmente permanente, con alterazione dell'assetto del territorio da qualificare come intervento di nuova costruzione in ossequio al disposto dell'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380/2001.
Ai sensi della richiamata norma, infatti, sono da intendersi quali «interventi di nuova costruzione» quelli che, come nel caso di specie, comportano «la trasformazione in via permanente di suolo inedificato».
Sul punto, è pacifico l’orientamento della Sezione per il quale la pavimentazione di un'area allo stato naturale non può in alcun modo configurarsi come intervento di manutenzione (ordinaria o straordinaria), consolidamento statico o restauro conservativo, trattandosi di opera edilizia nuova, e non già di intervento trasformativo di manufatto già esistente (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 12 maggio 2020, n.2981).
A tali conclusioni perveniva anche il giudice di primo grado ancorché ritenesse nel contempo, l’insussistenza dei presupposti legittimanti la demolizione del manufatto, subordinando l’esercizio del potere repressivo da parte del Comune ad un futuro ed eventuale accertamento di compatibilità cui riteneva potesse accedere il manufatto (fatta salva l’eventualità che «venissero accentrati inquinanti tra i materiali utilizzati per il terrapieno, ovvero se la pavimentazione del piazzale coprisse una discarica»).
Le suesposte premesso confermano il fondamento dei dedotti vizi di contraddittorietà e ultrapetizione.
Sotto un primo profilo, l’esito determinatosi in primo grado si pone in palese contraddizione con quanto affermato dallo stesso giudice che, come anticipato, facendo proprie, per quanto rilevanti a fini urbanistici, le conclusioni del CTU incaricato nel parallelo giudizio civile, affermava:
che è accertata «la presenza di un dislivello artificiale tra i due fondi, realizzato mediante opere che non sono state espressamente assentite»;
che l’intervento veniva realizzato «in anni non remoti, e comunque certamente dopo il 1967»;
che «la realizzazione di piazzali è un’attività edilizia sottoposta a permesso di costruire, a maggior ragione se associata alla rimodulazione del piano di campagna e alla creazione di un terrapieno».
Tali statuizioni, pienamente condivise dal Collegio, contraddicono l’affermazione, posta a fondamento della decisione impugnata, circa l’insussistenza dei presupposti legittimanti l’adozione della misura ripristinatoria.
Deve ulteriormente essere rilavato che l’art. 34, comma 2, con disposizione che è da ritenersi espressione dei principi di separazione dei poteri e di riserva di amministrazione, dispone che «in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativo non ancor esercitati».
Ne deriva che, come già affermato dalla Sezione, al giudice non è concesso «dettare le regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus» (Cons. Stato, Sez. VI, 30 giugno 2017, n.3207).
Deve, pertanto riconoscersi l’evidente contrasto coi i richiamati principi della statuizione del Tar per la quale «gli abusi edilizi [contestati con il provvedimento impugnato, ndr] sono quindi sanabili mediante accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 6 giugno 2001 n. 380» precisando ulteriormente che «la sanabilità si estende anche alla distanza minima dal confine».
Irrilevante deve, infine ritenersi la dedotta erronea interpretazione da parte del Tar dell’art. 23 delle NTA.
Il Tar, infatti, una volta richiamata la disposizione in questione, ritenendola applicabile alla realizzazione di aree di parcheggio, precisa che «questo segmento di attività edificatoria dovrebbe essere disciplinato dagli strumenti urbanistici, in particolare per fornire certezza sul passaggio dal semplice movimento terra al vero e proprio terrapieno»» e, pur affermando che «la mancanza di una specifica displica non rende inammissibile questa tipologia di interventi», rinvia «agli uffici comunali la definizione, caso per caso, di limiti ragionevoli».
Le illustrate perplesse statuizioni non esprimono alcun giudizio di sicura conformità dell’intervento riconoscendo a tali fini la necessità di una successiva discrezionale valutazione dell’amministrazione.
Per quanto precede l’appello principale deve essere accolto.
Il fondamento dell’appello principale attualizza l’interesse dell’appellato allo scrutinio dell’appello incidentale con il quale viene dedotto «error in iudicando per «violazione art. 31 DPR 380/2001; travisamento ed erronea lettura della documentazione in atti; violazione art. 34, 2 c.p.a.».
Con un primo ordine di censure Italfond deduce l’irrilevanza edilizia della superficie contestata, in ogni caso assentita con «SUAP 2007» (punti 47 e 48).
La doglianza è infondata.
Si è già evidenziato che il titolo rilasciato nel 2008 non contemplava la realizzazione del terrapieno pavimentato e che la pavimentazione di aree naturali richiede il permesso di costruire e non altro titolo edilizio.
Con un secondo ordine di censure deduce la contraddittorietà della sentenza nella parte in cui afferma la compatibilità dell’opera con l’art. 24.3 delle NTA ritenendo in ogni caso necessario un accertamento di compatibilità ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 (punti 49-52).
La doglianza, già scrutinata in quanto formulata in termini sostanzialmente identici dall’appellante principale, a tacere del fatto che non è sorretta da un concreto interesse risolvendosi nella contestazione di un profilo favorevole della pronunzia di primo grado, è superata dalla già affermata soggezione dell’intervento al regime de permesso di costruire.
Con un terzo ordine di censure deduce la violazione dell’art. 34, comma 2, c.p.a. in quanto l’esercizio «di eventuali poteri» a seguito dell’annullamento dell’ordine di demolizione spetterebbero al Comune (punto 53).
La doglianza analogamente alla precedente non è sorretta da un concreto interesse.
In primis non può sottacersi che la censura si pone in insanabile contrasto con quanto affermato dalla stessa Italfond laddove allega che il «TAR Brescia, nell’affermare la possibilità di una sanatoria al punto ff), ha completato incidentalmente un ragionamento, senza esorbitare dal perimetro della propria giurisdizione esclusiva, e quindi senza alcuna violazione dell’art 34 c.p.c.» (pag. 3 della memoria del 28 novembre 2022, successiva alla proposizione del ricorso incidentale).
In ogni caso, si è già argomentato circa il fondamento del vizio in questione in sede di scrutino del ricorso principale con conseguente rilievo dell’illegittimità sul punto della sentenza impugnata nei termini sopra esposti quindi sul punto l’accoglimento del ricorso in appello in via principale toglie interesse all’appello incidentale (proposto dalla parte che astrattamente trarrebbe vantaggio dalla statuizione inammissibile ).
Con un quarto ordine di censure Italfond deduce, in estrema sintesi, il travisamento delle conclusioni della richiamata CTU disposta in sede civile, peraltro «interessata da significativi chiarimenti» il 16 marzo 2016 e nega il preteso «innalzamento» del terreno che, in ogni caso, non sarebbe, come affermato dal Tar successivo al 1967 (punti 54-60).
Sul punto non può che rilevarsi come la causa, in primo grado, sia stata decisa alla camera di consiglio del 13 gennaio 2016, con conseguente irrilevanza di eventuali sopravvenienze e conferma degli accertamenti di fatto prima evidenziati relativi anche all’innalzamento del terreno.
Per quanto precede, l’appello principale deve essere accolto mentre l’appello incidentale deve essere in parte dichiarato inammissibile per difetto di interesse e in parte respinto.
In ragione della complessità della fattispecie possono essere compensate le spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti:
accoglie l’appello principale;
respinge in parte e in parte dichiara inammissibile l’appello incidentale, nei sensi di cui in motivazione;
per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado;
compensa le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 dicembre 2022 con l'intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro, Presidente
Alessandro Maggio, Consigliere
Stefano Toschei, Consigliere
Davide Ponte, Consigliere
Marco Poppi, Consigliere, Estensore