TAR Campania (NA) Sez. II n. 5964 del 15 ottobre 2018
Urbanistica.Mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante

L’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (introdotto dal decreto legge n. 133/2014, convertito nella legge n. 164/2014), alla cui stregua deve essere letto anche il successivo art. 32, comma 1, lett. a) in tema di variazioni essenziali al permesso di costruire, così dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”. Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, poiché la semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della scelta già operata con il decreto ministeriale n. 1444/1968

Pubblicato il 15/10/2018

N. 05964/2018 REG.PROV.COLL.

N. 02830/2017 REG.RIC.



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2830 del 2017, proposto da
ANNA STORNO BOCCIA, rappresentata e difesa dall’Avv. Paolo Giugliano, con il quale è elettivamente domiciliata in Napoli alla Via F. Petrarca n. 35 presso lo studio dell’Avv. Elena Pisa;

contro

COMUNE DI STRIANO, rappresentato e difeso dall’Avv. Francesco D’Avino, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Napoli alla Via Toledo n. 242;

per l'annullamento

a) dell’ordinanza dirigenziale del Comune di Striano n. 19 del 2 maggio 2017, recante l’ingiunzione di ripristino della destinazione d’uso risultante dal certificato di agibilità prot. n. 5495 del 16 giugno 2016;

b) della comunicazione di avvio del procedimento di ingiunzione di ripristino prot. n. 739 del 27 gennaio 2017;

c) della disposizione dirigenziale del Comune di Striano prot. n. 7315 del 22 agosto 2016, recante la sospensione dell’intervento di cambio di destinazione d’uso di cui alla CILA (Comunicazione Inizio Lavori Asseverata) dell’11 luglio 2016 e alla SCA (Segnalazione Certificata di Agibilità) del 28 luglio 2016;

d) di ogni atto presupposto, successivo o comunque connesso all’ordinanza di ripristino di cui sopra.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’amministrazione resistente;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 giugno 2018 il dott. Carlo Dell'Olio e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con il gravame in trattazione, la ricorrente, che espone di essere proprietaria di un fabbricato di due piani fuori terra, oltre a piano seminterrato, ubicato in Striano alla Via Palma e concesso in locazione a fini produttivo-artigianali, impugna l’ordinanza dirigenziale del Comune di Arzano n. 19 del 2 maggio 2017, con la quale le è stata ingiunta, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, il ripristino della destinazione residenziale originaria, come risultante dal certificato di agibilità prot. n. 5495 del 16 giugno 2016. In particolare, con la predetta ordinanza le è stata contestata la realizzazione, in assenza di permesso di costruire, di un cambio di destinazione d’uso del piano terra e del piano seminterrato, che avrebbero visto rispettivamente la trasformazione da locale ad uso residenziale in locale ad uso produttivo-artigianale e da locale autorimessa (servente la residenza) in locale deposito dell’attività artigianale; inoltre, è stato posto a base dell’ordinanza, come motivo ulteriore del dovere di ripristino, il contrasto della trasformazione edilizia posta in essere con l’art. 4, comma 5, della legge regionale n. 19/2009 (cd. legge piano casa), che così recita: “Per gli edifici e loro frazionamento, sui quali sia stato realizzato l’ampliamento ai sensi della presente legge, non può essere modificata la destinazione d’uso se non siano decorsi almeno cinque anni dalla comunicazione di ultimazione dei lavori.”.

La ricorrente aggiunge al riguardo di aver prodotto, in data 11 luglio 2016, CILA ai fini del cambio di destinazione d’uso del piano terra in locale ad uso produttivo-artigianale (seguito dalla relativa SCA del 28 luglio 2016) e che il suo inquilino, prima di avviare l’attività artigianale, presentava regolarmente SCIA commerciale in data 2 settembre 2016.

L’impugnativa ricomprende la comunicazione di avvio del procedimento di ripristino e la disposizione dirigenziale sospensiva dell’intervento di cambio di destinazione d’uso, entrambi atti meglio in epigrafe individuati.

L’intimata amministrazione comunale conclude nella sua memoria di costituzione per il rigetto del gravame.

Parte ricorrente insiste nelle sue ragioni con ulteriore memoria difensiva.

L’istanza cautelare è stata respinta con ordinanza n. 1261 del 13 settembre 2017, poi riformata in appello dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 4600 del 20 ottobre 2017, che ha ritenuto di accordare tutela cautelare sulla scorta della seguente motivazione: “Considerato che, ad un primo esame, l’impugnato ordine di ripristino non appare un’implicita rimozione degli effetti favorevoli della CILA, né per questi ultimi sarebbe potuta bastare la mera sospensione disposta dal Comune (misura cautelare che scade decorso inutilmente il termine di cui all’art. 19, c. 3 della l. 241/1990: al più gg. 45 dalla sua emanazione, ai sensi dell’art. 27, c. 3 del DPR 380/2001), quand’anche detto Comune la volesse intendere a guisa di presupposto della statuizione ripristinatoria; Considerato infatti che l’art. 19, c. 6-bis, II per. della l. 241/1990 fa sì salvi i poteri repressivi ex DPR 380/2001, ma nei limiti di cui ai precedenti commi 3 e 4, onde occorre pur sempre l’esercizio espresso dell’autotutela prima dell’emanazione d’ogni misura repressiva o ripristinatoria; Considerato quindi che, allo stato, va accolto l’appello cautelare.”.

La causa, infine, è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 5 giugno 2018.

2. Il più approfondito esame dell’intera vicenda contenziosa, proprio del merito, fa propendere il Collegio per la complessiva infondatezza del ricorso, sebbene con motivazioni alquanto diverse da quelle esposte in prima battuta in sede cautelare.

3. In via preliminare, va chiarito che l’unico provvedimento passibile di cognizione è l’ordinanza di ripristino n. 29/2017, dal momento che sui rimanenti atti gravati non può intervenire alcuna pronuncia di merito, essendo le relative impugnative inammissibili, irricevibili e/o improcedibili per le ragioni che si andranno di seguito sinteticamente ad esporre con riferimento ad ogni singola determinazione: 1) comunicazione di avvio del procedimento prot. n. 739 del 27 gennaio 2017: inammissibilità per carenza di interesse, perché nella specie si tratta di mero atto endoprocedimentale destinato ad essere recepito nel provvedimento ripristinatorio finale e, quindi, di atto privo di autonoma lesività; 2) disposizione dirigenziale prot. n. 7315 del 22 agosto 2016, recante la sospensione dell’intervento di cambio di destinazione d’uso: irricevibilità per tardività, essendo il presente ricorso stato portato alla notifica (a mezzo ufficiale giudiziario) il 20 giugno 2017, mentre la disposizione in parola è entrata nella piena cognizione della ricorrente – come dalla stessa ammesso e documentalmente provato in atti – almeno a far data dall’8 settembre 2016, con conseguente sforamento del termine perentorio di sessanta giorni per proporre impugnativa. Ad ogni modo, atteggiandosi tale provvedimento come un sostanziale ordine di sospensione lavori, l’impugnativa è anche improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, essendo decorso il termine di efficacia di 45 giorni previsto dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001. Invero, il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all’autorità comunale dalla suddetta disposizione normativa, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l’amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l’ordine di sospensione dei lavori perde ogni efficacia, mentre, nell’ipotesi di emissione del definitivo provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest’ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario, con conseguente assorbimento della disposta misura sospensiva (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 giugno 2016 n. 2758; TAR Lazio Roma, Sez. II, 4 aprile 2017 n. 4225; TAR Sicilia Catania, Sez. I, 24 gennaio 2017 n. 173; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 5 maggio 2016 n. 2282).

4. Perimetrato l’ambito del giudizio al suindicato provvedimento di ripristino, si può dare corso allo scrutinio di un primo gruppo di censure articolate avverso quest’ultimo, le quali sono così riassumibili:

a) l’effettuato cambio di destinazione d’uso era “liberamente eseguibile” e non assoggettabile a permesso di costruire, in virtù del combinato disposto degli artt. 23-ter e 32, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, non avendo giuridica rilevanza per mancato apporto di aggravio urbanistico in termini di ulteriori standard. L’inesistenza del maggior peso urbanistico è comprovata dai seguenti indici: i) “prima di avere una destinazione residenziale, la porzione di immobile della sig.ra Storno aveva già una destinazione produttiva, sicché l’odierna ricorrente non ha fatto altro che ripristinare l’originaria destinazione d’uso produttiva impressa ad una parte dell’immobile fin dalla sua costruzione”; ii) “proprio la destinazione d’uso produttiva dell’immobile era stata presa in considerazione dal Comune al momento dell’adozione del P.R.G., sicché lo strumento urbanistico già tiene conto dell’impatto della destinazione produttiva (originaria) dell’immobile della sig.ra Storno ed ha previsto degli standard urbanistici adeguati e correlati direttamente all’utilizzo produttivo dell’immobile”; iii) “il mutamento di destinazione d’uso concerne una porzione di un edificio che è inserito in un contesto già ampiamente urbanizzato (strade, illuminazione) e dotato altresì di allacci idrici e fognari”;

b) il cambio di destinazione d’uso in questione “oltre a non avere alcun impatto urbanistico, è anche funzionale all’esercizio di un’attività artigianale, sicché non può omettersi di rilevare che ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. e-bis), del D.P.R. n. 380/2001 rientrano tra l’attività di edilizia libera anche “le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa””;

c) la legittimità del cambio di destinazione d’uso era comunque asseverata dalla CILA dell’11 luglio 2016 e dalla SCIA commerciale del 2 settembre 2016, con la conseguenza che l’amministrazione non avrebbe potuto adottare l’ordine di ripristino senza prima annullare in autotutela i suddetti titoli abilitativi;

d) l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale prospettata nell’ordinanza di ripristino in caso di inottemperanza non può trovare applicazione a casi, come quello di specie, in cui il cambio di destinazione d’uso da residenziale a produttivo non comporti incremento degli standard urbanistici.

Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le ragioni di seguito esplicitate.

5. Il cambio di destinazione d’uso posto in essere dalla ricorrente, con passaggio dalla categoria residenziale a quella produttiva, era giuridicamente rilevante e non poteva essere eseguito liberamente, anche previa CILA come nello specifico, ma necessitava del rilascio del permesso di costruire.

Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (introdotto dal decreto legge n. 133/2014, convertito nella legge n. 164/2014), alla cui stregua deve essere letto anche il successivo art. 32, comma 1, lett. a) in tema di variazioni essenziali al permesso di costruire, così dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.

Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, poiché la semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della scelta già operata con il decreto ministeriale n. 1444/1968. Pertanto, la trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale, configurando un passaggio tra categorie funzionali autonome, costituisce per espressa qualificazione di legge un mutamento giuridicamente rilevante della destinazione d’uso (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 22 settembre 2017 n. 5770; Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 maggio 2016 n. 1951; Consiglio di Stato, Sez. IV, 26 febbraio 2015 n. 974; Cass. Pen., Sez. III, 3 dicembre 2015 n. 12904; TAR Campania Napoli, Sez. III, 5 settembre 2017 n. 4249; TAR Lombardia Milano, Sez. II, 17 febbraio 2016 n. 344).

5.1 Né può ritenersi, come sostiene parte ricorrente richiamando un orientamento giurisprudenziale ormai minoritario (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 3 maggio 2016 n. 1684), che per aversi mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante occorrerebbe appurare, in aggiunta al passaggio tra categorie funzionali diverse, l’effettivo aggravio urbanistico incidente sul tessuto edilizio in termini di incremento degli standard urbanistici (nella specie, parte ricorrente rimarca per l’appunto l’inesistenza di tale maggior peso urbanistico).

Tale tesi merita di essere disattesa perché contrastante sia con la lettera sia con la ratio dell’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001.

Infatti, nell’enunciato della disposizione in parola non si rinviene alcun riferimento all’accertamento in concreto dell’aggravio urbanistico, ma semplicemente si ricollega il concetto di rilevanza del mutamento di destinazione d’uso ad una diversa assegnazione della categoria funzionale di appartenenza, la quale di per sé impatterebbe sul carico urbanistico, inteso come rapporto di proporzione quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una determinata zona territoriale.

Inoltre, inserendosi l’intervento di trasformazione funzionale nell’ambito di un preesistente piano urbanistico, è evidente, in considerazione della differenziazione infrastrutturale tra le singole zone, che la ratio perseguita dalla norma riposa sulla salvaguardia del corretto ed ordinato assetto del territorio piuttosto che sul mero contrasto di eventuali aggravi urbanistici, avendo la finalità di mantenere inalterato il carico urbanistico di ogni zona e di impedire lo stravolgimento degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica mediante appositi standard (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 5770/2017 cit.).

In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto) ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato dalla trasformazione edilizia posta in essere.

5.2 Del resto, alle medesime conclusioni si perviene anche in applicazione della previgente normativa regionale, emanata in applicazione dell’art. 10, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 (da ritenersi oggi implicitamente abrogato per incompatibilità dal sopravvenuto art. 23-ter dello stesso d.P.R.: cfr. in particolare il comma 3), che prevede che le regioni stabiliscano con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, siano subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività (oggi SCIA).

In particolare, la Regione Campania all’art. 2 della legge regionale n. 19/2001 ha statuito che: a) possono essere realizzati in base a semplice denuncia d’inizio attività “i mutamenti di destinazione d’uso d’immobili o loro parti, che non comportino interventi di trasformazione dell’aspetto esteriore, e di volumi e superfici”, precisando che “la nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee” (comma 1, lett. f); b) “il mutamento di destinazione d’uso senza opere, nell’ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee, è libero” (comma 5); c) restano soggetti a permesso di costruire “il mutamento di destinazione d’uso, con opere che incidano sulla sagoma dell’edificio o che determinano un aumento piano volumetrico, che risulti compatibile con le categorie edilizie previste per le singole zone omogenee” (comma 6), “il mutamento di destinazione d’uso, con opere che incidano sulla sagoma, sui volumi e sulle superfici, con passaggio di categoria edilizia, purché tale passaggio sia consentito dalla norma regionale” (comma 7), nonché “il mutamento di destinazione d’uso nelle zone agricole - zona E” (comma 8).

Da tale disciplina si desume che, mentre il mutamento di destinazione d’uso senza opere non assume rilevanza giuridica laddove non si verifichi un passaggio tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, il mutamento di destinazione d’uso (con o senza opere) è sottoposto al regime della denuncia di inizio attività alla duplice condizione che: i) non comporti alcuna trasformazione dell’aspetto esteriore dell’edificio o un aumento dei volumi e delle superfici esistenti; ii) non determini un passaggio tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione dei diversi carichi urbanistici ai sensi degli artt. 3 e 5 del d.m. n. 1444/1968 (diversamente, gli interessati sarebbero indotti a chiedere il rilascio di un titolo edilizio che sconta il pagamento di un minor contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la destinazione d’uso originaria senza pagare i maggiori oneri che derivano dal maggior carico urbanistico). Negli altri casi il mutamento di destinazione d’uso è sempre rilevante ed è soggetto al preventivo rilascio del permesso di costruire (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. IV, 1° dicembre 2014 n. 6195; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 22 febbraio 2012 n. 885 e 1° dicembre 2011 n. 5612).

5.3 Alla luce di quanto esposto, si profilano quindi irrilevanti gli indici addotti dalla ricorrente per dimostrare il mancato apporto di aggravio urbanistico, ferme restando in ogni caso, nel merito, le seguenti contrarie osservazioni: i) per individuare in concreto il mutamento di destinazione d’uso deve tenersi conto della destinazione indicata nell’ultimo titolo edilizio rilasciato e non in quelli precedenti (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 16 maggio 2013 n. 38005; Consiglio di Stato, Sez. V, 3 gennaio 2001 n. 3); ii) nel vigente PRG gli standard urbanistici per l’area di insediamento del fabbricato in questione sono evidentemente quelli tipici della zona di riferimento, ossia della zona E – agricola, e non quelli della zona destinata ad insediamenti industriali, la cui sussistenza nello specifico non è accompagnata da alcun valido elemento di prova; iii) l’asserita urbanizzazione dell’area di insediamento del fabbricato non comporta di per sé l’adeguatezza degli standard urbanistici esistenti alle esigenze di un immobile con destinazione produttiva.

6. Né è concretamente invocabile il disposto dell’art. 6, comma 2, lett. e-bis), del d.P.R. n. 380/2001, applicabile ratione temporis in ragione dell’esecuzione della trasformazione edilizia, dal momento che nella specie non si tratta di fabbricati o locali già adibiti ad esercizio di impresa, ma viceversa di unità immobiliari ad uso residenziale poi destinate a finalità produttive.

7. Nemmeno l’amministrazione era tenuta ad esercitare preventivamente i poteri di autotutela per rimuovere gli effetti della CILA e della SCIA commerciale, e ciò per le seguenti dirimenti ragioni: i) la CILA, a differenza della SCIA, si configura come un mero atto di comunicazione privo di effetti abilitativi propri, che viceversa derivano direttamente dalla legge in forza della libera eseguibilità di determinate attività edilizie. Ne costituisce conferma il fatto che l’atto con cui l’amministrazione comunale respinge (archiviando o dichiarando irricevibile/improponibile) una CILA presentata per l’effettuazione di alcuni lavori non ha valore provvedimentale, bensì di semplice avviso, privo di esecutorietà, circa la (non) regolarità delle opere oggetto di comunicazione, vertendosi appunto in ambito di attività di edilizia libera e non essendo, peraltro, legislativamente previsto che il comune debba riscontrare le comunicazioni di attività di tal fatta con provvedimenti di assenso o di diniego. Resta, beninteso, fermo l’esercizio del potere sanzionatorio nel caso in cui l’attività libera non coincida con l’attività ammessa, come avvenuto nella specie (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. II, 17 settembre 2018 n. 5516; TAR Veneto, Sez. II, 15 aprile 2015 n. 415); ii) gli effetti della SCIA commerciale, presentata dall’inquilino della ricorrente, erano stati già inibiti con provvedimento comunale del 27 gennaio 2017 (cfr. documentazione allegata alla memoria di costituzione dell’amministrazione), ben prima dell’emanazione dell’ordinanza di ripristino.

8. Infine, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale consegue automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza all’ordine di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale istituto connesse al mancato incremento degli standard urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso.

9. Quanto sopra esposto riveste carattere assorbente ed esime il Collegio dall’esaminare le rimanenti censure, con cui parte ricorrente intende contestare l’ordinanza di ripristino in ordine al profilo motivazionale del ravvisato contrasto della trasformazione edilizia con l’art. 4, comma 5, della legge piano casa, dal momento che comunque l’impianto complessivo di tale atto risulta validamente sorretto dalla necessità del previo rilascio del permesso di costruire ai fini del cambio di destinazione d’uso. Soccorre, al riguardo, il condiviso principio secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento (cfr. Consiglio di Stato, A.P., 29 febbraio 2016 n. 5; Consiglio di Stato, Sez. V, 6 marzo 2013 n. 1373 e 27 settembre 2004 n. 6301; Consiglio di Stato, Sez. VI, 5 luglio 2010 n. 4243).

10. In conclusione, resistendo gli atti impugnati a tutte le censure prospettate, il ricorso deve essere respinto siccome infondato.

Sussistono nondimeno giusti e particolari motivi, attesa la complessità della vicenda contenziosa, per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Napoli nelle camere di consiglio dei giorni 5 giugno 2018 e 25 settembre 2018 con l'intervento dei magistrati:

Giancarlo Pennetti, Presidente

Carlo Dell'Olio, Consigliere, Estensore

Germana Lo Sapio, Primo Referendario