Cass. Sez. III n. 27887 del 2 luglio 2015 (Ud 16 giu 2015)
Pres. Squassoni Est. Scarcella Ric. Arrabito
Acque. Scarico di reflui provenienti da attività di lavanderia industriale

Lo scarico dei reflui provenienti da attività di lavanderia industriale, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all'art. 137, comma primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non potendo tali acque essere assimiliate a quelle domestiche

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 16/04/2014, depositata in data 16/05/2014, il tribunale di ROMA condannava A.M.S. alla pena di 2.000,00 di ammenda per il reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 137, comma 1, per aver effettuato nuovi scarichi di acque reflue industriali senza autorizzazione (fatto contestato come accertato il 23/11/2010), riconoscendo i doppi benefici di legge e con il concorso di attenuanti generiche.

2. Ha proposto personalmente ricorso A.M.S., impugnando la sentenza predetta con cui deduce un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., lett. e), sotto il profilo della manifesta illogicità della motivazione. In sintesi, la censura investe l'impugnata sentenza per aver il giudice di merito ritenuto colpevole la ricorrente in difetto di prova; in particolare, il giudice avrebbe ritenuto che la ricorrente abbia dato corso ad un'attività di lavanderia, con conseguente utilizzazione di macchine lavatrici e la produzione di acque reflue industriali senza una preventiva autorizzazione dell'ASL territorialmente competente; non vi sarebbero, invece secondo la ricorrente, nè elementi di fatto nè di diritto per ascrivere alla medesima l'attività di lavanderia nè l'uso di lavatrici; la tesi accusatoria, anzi, avrebbe trovato una palese smentita allorquando gli agenti accertatori, giunti sul posto, avevano accertato che le lavatrici non erano in funzione ed erano disattivate, tant'è che non era stato possibile procedere a verifica degli scarichi di acque reflue; sarebbe stata necessaria, secondo la ricorrente, una più specifica indagine, anche al fine di verificare di quale tipologia di autorizzazione la ricorrente fosse dotata, in quanto la stessa era titolare di una licenza di lavanderia e stireria e, pur avendo inoltrato domanda per ottenere la licenza per lavanderia dotata di macchinari per lavaggio, la stessa mai aveva posto in essere quest'ultima attività in quanto non era munita di autorizzazione allo scarico delle acque reflue industriali; nessun collegamento, fine, era ravvisabile tra l'attività della ricorrente e lo scarico delle acque reflue industriali, nè alcuno scarico era stato rinvenuto nei locali della ditta nè all'esterno nei punti di confluenza delle acque reflue, donde l'assoluta assenza di motivazione circa le prove a suo carico.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è manifestamente infondato.

4. Ed invero, emerge dalla lettura dell'impugnata sentenza che a seguito di un sopralluogo eseguito congiuntamente in data 23/11/2010 da personale ARPA Lazio e polizia locale presso la lavanderia della ricorrente, era stato appurata la presenza all'interno di quattro lavatrici di tipo industriale, i cui scarichi - come emerso dagli accertamenti disposti in sede dibattimentale presso gli Enti competenti e riportati in sentenza - non potevano essere considerati come assimilabili agli urbani; risulta, peraltro, che al momento del sopralluogo non solo nessuna autorizzazione allo scarico era stata rilasciata, ma che la stessa non poteva nemmeno essere ottenuta, come chiarito dalle note ACEA ed ARPA del 21/03/2014 richiamate in sentenza; infine, stante la mancanza di pozzetti di ispezione, il personale non aveva avuto la possibilità di verificare la concreta qualità delle acque.

A fronte di tali elementi di indubbia valenza indiziaria, dai quali il giudice ha, con motivazione logica, desunto gli elementi necessari per poter ritenere configurabile il contestato reato di scarico abusivo, la ricorrente si limita a svolgere censure di tipo puramente contestativo, evocando un inesistente vizio di "illogicità manifesta" della sentenza, in sostanza offrendo a questa Corte una sua persona lettura degli elementi di fatto, in una manifestando il proprio dissenso circa la ricostruzione dei fatti e la valutazione degli elementi operata dal giudice di merito, chiedendo quindi a questa Corte di sostituirsi al giudice di merito e svolgere un sindacato che comporterebbe necessariamente un apprezzamento di fatto che, peraltro, contrasta con i dati di cui alla sentenza (ci si riferisce, in particolare, all'affermazione secondo cui le lavatrici non fossero in uso ed erano disattivate al momento del sopralluogo;

od, ancora, alla critica avverso la sentenza per non aver verificato quale fosse la licenza di cui la ditta della ricorrente era titolare, avendo peraltro ammesso in ricorso che la stessa non fosse munita di autorizzazione allo scarico industriale; analogamente, quanto alla impossibilità di procedere alla verifica degli scarichi delle acque reflue, la stessa sentenza ben spiega che tale accertamento non fosse stato possibile proprio per la mancanza di pozzetti ispezionabili, circostanza del tutto logica in quanto mancava l'autorizzazione allo scarico). Diversamente, del tutto "illogica", ove non utilizzate, sarebbe - trovando invece all'evidenza una spiegazione nel fatto che l'attività di lavanderia industriale venisse svolta abusivamente - la presenza all'interno dei locali della ditta della ricorrente di ben quattro macchine per lavanderia industriale i cui scarichi, come chiarito, non erano assimilabili a quelli civili.

Affermazione, questa, peraltro, corretta anche in diritto, avendo, anche di recente, affermato questa Corte che lo scarico dei reflui provenienti da attività di lavanderia industriale, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 137, comma 1, non potendo tali acque essere assimiliate a quelle domestiche (Sez. 3^, n. 24330 del 13/05/2014 - dep. 10/06/2014, Marano, Rv. 259304).

E', quindi, evidente come inesistente sia non solo il vizio di mancanza di motivazione (il quale sussiste allorchè il provvedimento giurisdizionale manca del tutto della parte motivata ovvero la medesima, pur esistendo graficamente, è tale da non evidenziare l'iter" argomentativo seguito dal giudice per pervenire alla decisione adottata, cosiddetta motivazione apparente: Sez. 1^, n. 3262 del 25/05/1995 - dep. 06/07/1995, Di Martino, Rv. 202133), ma anche il vizio di illogicità della motivazione, rilevabile solo ove si accerti una frattura logica evidente tra una premessa, o più premesse nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono, circostanza da escludersi nel caso in esame (v., tra le tante: Sez. 1^, n. 9539 del 12/05/1999 - dep. 23/07/1999, Commisso ed altri, Rv.215132).

6. Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

Segue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di somma che si stima equo fissare, in Euro 1000,00 (mille/00).

Si noti, per completezza, che il termine di prescrizione massima non è ancora decorso, atteso che la stessa dovrebbe maturare, avuto riguardo al tempus commissi delicti, solo in data 23/11/2015; deve, inoltre, essere aggiunto il periodo di sospensione a seguito del rinvio su richiesta del difensore all'udienza davanti a questa Corte tenutasi in data 21/05/2015 sino all'udienza odierna, ex art. 159 c.p., comma 1, n. 3, per complessivi gg. 26, con conseguente definitiva maturazione del termine alla data del 18/12/2015.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 16 giugno 2015.
Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2015