Circolare della Regione Lazio - Dipartimento Territorio - del 27/1/2007 che chiarisce: a) chi è imprenditore agricolo; b) cosa è il Piano di
Utilizzazione Aziendale; c) chi ha titolo per approvare il PUA.
Si ringrazia E.Pane per la segnalazione
Ai Comuni della Regione
Oggetto: Nota – circolare interpretativa dell’art. 57 della L.R. 22 dicembre 1999, n. 38 (Norme sul governo del territorio), così come modificata dalla L.R. 16 aprile 2002, n.
Con la presente nota – circolare questa Direzione intende offrire ai comuni della Regione univoci e corretti spunti interpretativi riguardo a talune disposizioni contenuta nella L.R. 22 dicembre 1999, n. 38 (Norme sul governo del territorio), così come modificata dalla L.R. 16 aprile 2002, n. 8, segnatamente per quanto attiene alla normativa dei Piani di utilizzazione aziendale contenuta nell’art. 57 della legge regionale surichiamata.
La puntuale interpretazione di tali disposizioni – collocate nell’ambito della disciplina più generale delle zone agricole – appare, infatti, di peculiare rilievo, atteso che da più parti sono emersi dubbi ed incertezze in ordine alla loro corretta applicazione.
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Statuisce l’art. 57, comma 1, che “per le zone agricole, gli imprenditori agricoli, così come definiti all’articolo 2135 del codice civile, singoli o associati, possono presentare al comune un piano di utilizzazione aziendale (PUA) […]”
Occorre, pertanto, dare, in limine, una puntuale configurazione alla nozione di “imprenditore agricolo”.
Come noto, per l’identificazione della figura generale di “imprenditore” l’art. 2082 del Codice civile fissa i seguenti requisiti:a) esercizio di una “attività economica” rivolta alla produzione o allo scambio di beni o servizi; b) che tale attività realizzi una “organizzazione di beni”; c) che l’attività sia esercitata “professionalmente”, cioè in modo stabile e continuativo, anche se non esclusivo.
In tale nozione, così come sopra in sintesi delineata, va ovviamente ricompreso anche l’imprenditore agricolo, essendo l’attività agricola, nella sua essenza, una forma di attività economica (anche se caratterizzata, fenomenologicamente, da una sua indubbia peculiarità nei suoi profili, tecnici, economici, sociali, storici) ed essendo agevolmente riscontrabili, nell’esercizio di essa, gli elementi ed i requisiti richiesti per la qualificazione giuridica di imprenditore; va anzi soggiunto che la natura stessa dell’attività agricola, per le modalità del suo svolgimento, postula l’organizzazione e la continuità propria dell’impresa.
Preme qui tuttavia rilevare che, in ogni caso, la qualità di imprenditore agricolo non coincide con la categoria dell’imprenditore agricolo a titolo principale (identificato, secondo l'art. 12 L 9 maggio 1975 n. 153, in colui che dedichi all'attività' agricola almeno i due terzi del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dall'attività' medesima almeno i due terzi del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale), potendo l’attività di imprenditore agricolo non confluire necessariamente nell’attività principale.
Tanto premesso, la nozione di imprenditore agricolo è contenuta nell’art. 2135 del c c. nel testo modificato dall’art. 1 del decreto legislativo 18 maggio 2001 n. 228, il cui primo comma – non innovando, in realtà, in modo sostanziale alla precedente formulazione - riconosce tale qualifica a “chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”.
Il secondo comma puntualizza, poi, che “per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”
Ciò fermo, va osservato che la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l’allevamento di animali configurano le tre attività qualificanti e fondamentali dell’impresa agricola: si rileva qui per inciso che, per quanto attiene all’attività di “allevamento di animali”, ai fini della nozione di impresa agricola desumibile dall'art. 2135 c.c., può qualificarsi tale solo l'allevamento di animali destinati all'alimentazione o all'utilizzo in agricoltura come forza lavoro. Ne consegue che ha natura commerciale e non agraria l'allevamento di cavalli destinati ad un centro ippico (vedasi, in tal senso, Cassazione civile sez. III, 17 dicembre 1997, n. 12791).
Peraltro, oltre alle elencate attività fondamentali e qualificanti, che costituiscono l’oggetto dell’agricoltura, il citato primo comma dell’art. 2135 c.c. ricomprende nella stessa nozione e stessa disciplina le attività comunque a quelle connesse (e, quindi, con esse compatibili).
Si tratta, in altri termini, di quelle attività che non hanno un contenuto propriamente agricolo (e quindi, di per sé, sarebbero sussumibili nella sfera delle attività artigianali o commerciali), bensì acquistano carattere agricolo quando siano esercitate in connessione con una delle attività agricole fondamentali surichiamate.
In virtù di questa connessione, dette attività sono assoggettate alla stessa disciplina giuridica delle attività agricole fondamentali, ed è, e rimane imprenditore agricolo colui che le esercita in quella connessione.
Segnatamente, sono da considerarsi “attività connesse” quelle riguardanti la “manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali”, nonché quelle “dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge” (art. 2135 c.c., comma 3).
Orbene, sono considerate agricole “ex lege” - e conseguentemente è da ritenere imprenditore agricolo chi le esercita - quelle attività dirette alla trasformazione, manipolazione, conservazione ed alienazione del prodotto agricolo ovvero alla fornitura di beni e servizi, che accompagnano, in termini strumentali e complementari, nell’ambito di un unico contesto aziendale, le attività fondamentali e qualificatrici dell’impresa agricola di cui al comma 1 dell’ ’art. 2135 c.c. (coltivazione del fondo, allevamento degli animali, silvicoltura), da cui proviene, quanto meno prevalentemente, lo stesso prodotto agricolo
Appare, quindi necessario, ai fini della qualifica di imprenditore agricolo, che esse siano il naturale complemento dell’attività agricola fondamentale, di modo che quest’ultima e le attività connesse ineriscano alla stessa organizzazione aziendale.
Per contro, se le attività in questione sono esercitate separatamente dalle attività agricole fondamentali – e le prime non traggono, pertanto, occasione e sviluppo dalle seconde – esse, anziché “accessorie” sono da ritenersi “principali”: cosicché colui che la esercita non assume la qualifica di imprenditore agricolo, bensì quella di imprenditore commerciale o industriale.
Pertanto, secondo il criterio di individuazione espresso nell'art. 2135 c.c., laddove le c. d. “attività connesse” assumano nel quadro aziendale posizione prevalente, di modo che il fondo appaia servire all'industria come mezzo a fine, si esorbita dai confini di un'attività accessoria di produzione, dando vita a vere e proprie attività industriali o commerciali”. (Principio affermato in relazione ad azienda dedita all'allevamento di polli in cui la maggior parte dell'attività' produttiva si concentrava nello stabilimento per la macellazione e trasformazione della carne [Cassazione civile, sez. lav., 9 aprile 1998, n. 3686]).
“Nella nozione d'impresa agricola vanno ritenute ricomprese oltre alle attività fondamentali che costituiscono l'oggetto dell'agricoltura anche le attività connesse, tali sia in senso soggettivo (esercizio dell'attività' da parte di un imprenditore agricolo) sia in senso oggettivo (collegamento ad una delle tre attività qualificatrici dell'impresa agricola). Pertanto l'attività' connessa deve restare collegata all'attività' agricola principale mediante un vincolo di strumentalità o complementarietà funzionale, in assenza del quale essa non rientra nell'esercizio normale dell'agricoltura ed assume invece il carattere prevalente, o esclusivo, dell'attività' commerciale o industriale”. (Consiglio Stato sez. IV, 12 ottobre 1999, n. 1555).
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Il Piano di Utilizzazione aziendale (PUA) di cui all’art. 57 della L.R. n. 38/99, e succ. mod. ed integr., configura un quadro programmatico – i cui contenuti sono definiti nel terzo comma del citato art. 57 - che si obiettivizza nella elaborazione di misure ed interventi preordinati allo sviluppo di un’azienda agricola (e quindi ad ottimizzarne la convenienza economica), che, fra l’altro, comportano la necessità di derogare sia alle prescrizioni relative al lotto minimo (concernenti - è bene avvertire – esclusivamente le strutture a scopo abitativo) ed alle dimensione degli annessi agricoli di cui all’articolo 55 (art. 57, comma 1).
In ogni caso, poi, “il PUA può comprendere una pluralità di aree non contigue, purché, in questo caso, sia raggiunta una superficie complessiva non inferiore al lotto minimo di cui all’articolo 55” (art. 57,comma 4), con ciò consentendo di derogare, eventualmente, alle prescrizioni concernenti la contiguità dei lotti asservibili ai fini del raggiungimento del lotto minimo ivi prefigurato.
Le disposizioni del richiamato art. 55 – alle quali è consentito derogare – dispongono che “[…] il lotto minimo è rappresentato dall’unità aziendale minima di cui all’articolo 52, comma 3. È ammesso, ai fini del raggiungimento della superficie del lotto minimo, l’asservimento di lotti contigui, anche se divisi da strade, fossi o corsi d’acqua.” (comma 5)
“L’unità aziendale minima non può, in ogni caso, essere fissata al di sotto di 10 mila metri quadri. In mancanza dell’individuazione dell’unità aziendale minima, il lotto minimo è fissato in 30mila metri quadri” (comma 6).
“Gli annessi agricoli possono essere realizzati fino ad un massimo di 20 metri quadri per ogni 5mila metri quadri di terreno ed un’altezza massima di 3,20 metri lineari calcolata alla gronda. Tali manufatti devono essere realizzati con copertura a tetto.” (comma 7)
“Fatto salvo quanto previsto dal comma 7, nei comuni con popolazione inferiore a duemila abitanti, le cui zone agricole siano caratterizzate da un elevato frazionamento fondiario, possono essere realizzati annessi agricoli di superficie massima di 12 metri quadri, con altezza massima di 2,30 metri lineari calcolati alla gronda, su lotti di superficie non inferiore a 1.500 metri quadri, purché gli stessi lotti siano utilizzati per lavorazioni agricole da almeno tre anni alla data della richiesta ad edificare.”(comma 8)
Va da subito avvertito che, qualora gli interventi previsti nel PUA comportino una deroga ai parametri configurati dalle disposizioni testé citate, la necessità di tale deroga non può che essere strettamente correlata alla valutazione che, diversamente, gli obiettivi programmati al fine di consentire il potenziamento aziendale non potrebbero essere raggiunti, con ciò vanificando le ragioni medesime per cui il PUA viene prospettato.
Cosicché, il PUA non può costituire uno strumento surrettizio e strumentale per conseguire una facile evasione della norma generale (di cui al predetto art. 55 L.R. n. 38/99) relativa alla superficie del lotto minimo, al dimensionamento degli annessi agricoli nonché alla contiguità dei lotti asservibili ai fini del raggiungimento del lotto minimo medesimo: al contrario, la discrezionalità dell’organo comunale, connessa all’approvazione di un PUA comportante siffatte deroghe, deve essere calibrata sulla stretta necessita delle medesime e quindi sulle oggettive esigenze dell’azienda, nel cui soddisfacimento lo strumento del PUA disciplinato dall’art. 57 della L.R. n. 38/99 trova la sua ragion d’essere.
Sussiste, infatti, un rapporto di intima complementarietà fra deroghe alle prescrizioni di cui all’art. 55 della L.R. n. 38/99 e esigenze aziendali, nel senso che le prime sono funzionali (in termini di sviluppo economico) alla seconde, e queste sono funzionali (in termini di legittimazione) alle prime.
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Occorre, infine, dirimere la questione circa la figura istituzionale avente titolo all’approvazione del PUA, posto che, in proposito, la dizione della norma, per la sua genericità, induce comprensibili margini di incertezza interpretativa presso le amministrazioni comunali.
L’art. 57 della L.R. n. 38/99, infatti - dopo aver previsto l’intervento, nel procedimento di approvazione del PUA, del preventivo parere della commissione edilizia comunale, integrata da un dottore agronomo forestale o da un perito agrario (ovvero, in caso di mancata istituzione della commissione edilizia, di una commissione ad hoc, nominata dal comune), la quale verifica la sussistenza dei presupposti (comma 2) – statuisce, con formula ellittica, che “il PUA è approvato dal comune e si realizza attraverso un'apposita convenzione[…]” (comma 5).
Al fine di individuare, più in specifico, l’organo comunale competente all’approvazione del Piano di Utilizzazione Aziendale proposto, occorre allora por mente alla considerazione che le previsioni derogatorie, contenute nel PUA, alla norma generale di cui all’art. 55 della L.R. n. 38/99 non possono non indurre riflessi urbanistici ed ambientali, posto che tale strumento consente, in qualche misura, di obliterare – sia pure per esigenze aziendali a fronte delle quali la norma generale è da ritenersi recessiva - taluni criteri ed indirizzi fondamentali di assetto urbanistico che il legislatore ha inteso delineare per le aree agricole.
Ciò vale per l’introduzione di un lotto minimo di superficie fondiaria entro il quale sono consentite le costruzioni a fini abitativi nonché per il contenuto dimensionamento degli annessi agricoli, allo scopo di caratterizzare le campagne da una edificazione esclusivamente estensiva e di arginare così un trend involutivo che ha coinvolto quest’ultime in una stratificazione di processi degenerativi.
Vale anche per la richiesta contiguità dei lotti asservibili ai fini del raggiungimento della superficie del lotto minimo, se si considera che la mancanza di contiguità viene ad incidere sulla distribuzione degli edifici ed il loro dimensionamento.
In altre parole, l’approvazione del PUA, a seguito dei suoi contenuti derogatori alle prescrizioni di cui al più volte citato art. 55 della L.R. n. 38/99, impone scelte urbanistiche particolarmente delicate in relazione al fatto che quella porzione del territorio, sulla quale ricadono gli interventi previsti dal piano aziendale, viene ad essere disciplinata secondo regole diverse e contrastanti rispetto a quelle disposte in via generale dal legislatore regionale.
Posta la questione in questi termini, appare improponibile (come, tuttavia, da qualche parte prospettato) individuare nel responsabile dell’Ufficio tecnico l’organo comunale competente all’approvazione di siffatti piani (e della relativa convenzione): stante, infatti, che - come ben noto - a norma dell’art. 107 del T.U. degli Enti Locali (decreto legislativo 8 agosto 2000 n. 267), ai “dirigenti la direzione degli uffici” comunali è attribuita “la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica” nel rispetto di criteri di indirizzo e di controllo politico – amministrativo predeterminati dagli organi di governo.
Diversamente, nel caso in specie, l’approvazione di cui trattasi, in quanto implicante esercizio di discrezionalità non solo tecnica, bensì estesa a scelte e valutazioni in ordine all’assetto urbanistico di una porzione del territorio rurale, in deroga ai criteri configurati in via generale dalla legge regionale, comporta che la relativa competenza debba essere attribuita all’organo di governo dell’ente locale, ed in specie al consiglio comunale, quale organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo in generale, e nella materia urbanistica in particolare.
Del resto, con riferimento a fattispecie in qualche parte analoga, lo stesso T. U. dell’edilizia (D.P.R. 380/2001) dispone che “il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato […] previa deliberazione del consiglio comunale […]”.
Tutt’al più, potrà ammettersi una competenza da parte del responsabile dell’Ufficio tecnico comunale in ordine all’approvazione del piano aziendale proposto solo là dove tale provvedimento faccia seguito ad un atto generale di indirizzo del consiglio comunale in cui – ai fini di un ordinato e compatibile spazio di utilizzazione dello strumento in questione, a ragione delle ricadute che esso presenta sull’assetto delle zone agricole - siano, con rigore e cautela, predeterminati criteri, limiti e modalità in forza dei quali possano ammettersi le previsioni derogatorie contenute nel PUA.
Il Direttore
(Arch. Paolo Ravaldini)