Cass. Sez. III n. 32542 del 29 settembre 2006 (ud. 7 giu. 2006)
Pres. Lupo Est. Franco Ric. De Nardis
Beni Ambientali. Vincolo di rimboschimento.
L’assimilazione ai boschi dei fondi gravati
dall’obbligo di rimboschimento richiede la sola presenza del
provvedimento amministrativo o della dispostone normativa che abbia
imposto il vincolo di rimboschimento. E’ da escludersi il
concorso apparente di norme e, conseguentemente,
l’applicazione del principio di specialità tra la
violazione paesaggistica di cui all’articolo 181 D.Lv.
42-2004 e il DL 3267-1923 artt. 26 e 54 in tema di vincolo
idrogeologico e tra la medesima violazione penale e la legge 950-1956
art. 1 in materia di polizia forestale
Udienza pubblica del 7.6.2006
SENTENZA N. 1036
REG. GENERALE n. 6844/2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli III. mi Signori
1. Dott. Ernesto
LUPO
Presidente
2. Dott. Guido DE
MAIO
Consigliere
3. Dott. Alfredo
TERESI
Consigliere
4. Dott. Alfredo Maria
LOMBARDI
Consigliere
5. Dott. Amedeo FRANCO
(est.)
Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da De Nardis Francesco, nato a Teramo il 21
ottobre 1953;
avverso la sentenza emessa il 26 ottobre 2005 dalla corte d'appello de
L'Aquila;
udita nella pubblica udienza del 7 giugno 2006 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore
Generale dott. Francesco Salzano, che ha concluso per il rigetto del
ricorso;
udito per la parte civile il difensore avv. Giustino Micochero;
udito per l'imputato il difensore avv. Fabrizio Spinelli;
Svolgimento del processo
Con sentenza del 7 gennaio 2003 il giudice del tribunale di Teramo
dichiarò De Nardis Francesco colpevole del reato di cui agli
artt. 146, lett. c) e g), 151 e 163 del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490,
in relazione agli artt. 2, comma 6, e 4, commi 1 e 2, d.lgs. 18 maggio
2001, n. 227, per avere, quale proprietario, proceduto all'aratura di
un terreno di circa 5.000 mq. precedentemente rimboschito con piantine
di roverella in esecuzione di un progetto ripristino cava, provocando
l'estirpazione completa delle essenze e così effettuando la
trasformazione della destinazione d'uso del suolo in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico senza autorizzazione, e lo condannò
alla pena di mesi uno e giorni 15 di arresto ed € 5.000,00 di
ammenda, con i doppi benefici e la condanna al risarcimento del danno
in favore della costituita parte civile comune di Campli.
La corte d'appello de L'Aquila, con la sentenza in epigrafe,
confermò la sentenza di primo grado.
L' imputato propone ricorso per cassazione deducendo:
a) mancanza della motivazione per non avere la corte d'appello
esaminato la questione riguardante l'applicazione al caso di specie
degli artt. 26 r.d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267 e 1 legge 9 ottobre
1967, n. 950;
b) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale non avendo
la corte d'appello applicato al caso di specie gli artt. 26 e 54 r.d.l.
30 dicembre 1923, n. 3267 e 1 legge 9 ottobre 1967, n. 950, che per le
infrazioni alle prescrizioni concernenti i terreni rimboschiti (come
nella specie) prevedono la sanzione amministrativa;
c) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 146, lett. c) e g)
d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490; insussistenza del vincolo
paesaggistico; difetto di motivazione per non avere la corte d'appello
giustificato la riconducibilità della fattispecie sub art.
146, lett. g) d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490. Lamenta che la corte
d'appello, dopo aver omesso qualsiasi esame sulla presunta violazione
dell'art. 146, lett. c), cit., si è limitata ad affermare
che la fattispecie rientra certamente tra quelle previste dalla lett.
g), ma senza fornire sul punto alcuna motivazione. Nella specie,
infatti, le piccole piantine di roverella, alte non più di
20 cm., e del costo di 200 lire ciascuna, non potevano integrare
concetto di bosco, sia ai sensi dell'art. 2 d.lgs. 18 maggio 2001, n.
227, sia ai sensi degli artt. 423 e 425 cod. pen.;
d) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale non avendo
la corte d'appello esaminato la sussistenza dei requisiti di cui
all'art. 2 d.lgs. 227/2001, che trovavano applicazione non avendo la
regione Abruzzo definito normativamente la nozione di bosco;
e) mancanza o manifesta illogicità della motivazione;
travisamento del fatto per non avere la corte d'appello considerato che
l'estirpazione delle piantine era stata determinata da un gregge di
pecore e non dalle operazioni di aratura del terreno su cui le piantine
insistevano; violazione dell'art. 42 cod. pen. in ordine alla
affermazione di responsabilità non sussistendo lo elemento
psicologico del reato.
Motivi della decisione
Va preliminarmente osservato che il ricorso non può
ritenersi manifestamente infondato ed è quindi ammissibile,
con la conseguenza che il rapporto processuale di impugnazione in
questo grado si è validamente instaurato e che questa Corte
può quindi rilevare e dichiarare le cause di estinzione del
reato verificatesi successivamente alla pronuncia della sentenza
impugnata.
Nella specie il reato è stato contestato come commesso il 17
settembre 2001 e si è pertanto prescritto (in mancanza di
sospensioni) il 17 marzo 2006.
Poiché dagli atti non emergono in modo evidente cause di
proscioglimento nel merito, la sentenza impugnata, per quanto concerne
le statuizioni penali, deve essere annullata senza rinvio per essere il
reato estinto per prescrizione.
Essendovi però stata condanna al risarcimento del danno in
favore della parte civile, il ricorso deve essere ugualmente esaminato
nel merito al solo fine della decisione sulle statuizioni civili ai
sensi dell'art. 578 cod. proc. pen.
Ciò posto, il primo motivo è inammissibile
perché, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte,
non sono denunciabili in cassazione i vizi della motivazione nelle
questioni di diritto affrontate dal giudice di merito allorquando sia
corretta la soluzione sotto il profilo strettamente giuridico,
poiché l'interesse alla impugnazione nasce solo dall'errata
soluzione della detta questione (Sez. V, 22 febbraio 1994, Marzola, m.
197.993). Il primo motivo è appunto relativo ad una
questione di diritto (concernente la sussistenza o meno di un rapporto
di specialità tra una norma che prevede una sanzione penale
ed altra che prevede una sanzione amministrativa), questione che, come
subito si vedrà, la corte d'appello ha risolto esattamente,
di modo che sono irrilevanti i vizi o le carenze della motivazione, che
ben può essere corretta o integrata da questa Corte.
II secondo motivo è infondato. Invero, secondo la
giurisprudenza di questa Suprema Corte, per valutare la
«medesimezza» del fatto ai sensi dell'art. 9 della
legge 24 novembre 1981, n. 689, occorre considerare l'astratto profilo
di una possibile uguaglianza tra le diverse fattispecie e, quindi,
l'identità dei beni giuridici tutelati e degli elementi
strutturali di tipo oggettivo, quali la condotta e l'oggetto materiale.
Si è inoltre sottolineata la necessità di
considerare anche il bene giuridico tutelato nelle fattispecie
specifiche, la diversità del quale consentirebbe di
escludere la sussistenza del rapporto di specialità (cfr.
Sez. I, 31 gennaio 2002, Fantasia, m. 221.610). In particolare, si
osserva che il concorso c.d. apparente di norme, che è
previsto dall'art. 9 cit. e che è soggetto al principio di
specialità, presuppone che le norme prendano in
considerazione lo «stesso fatto», di modo che, in
presenza di fattispecie che presentino un elemento di
diversità, ancorché coincidenti in tutto o in
parte con riguardo alla condotta del trasgressore, si deve ravvisare un
concorso effettivo, e non apparente (Cass. civ., Sez. I, 10 settembre
1991, n. 9494, m. 473.801). In altre parole, l'operatività
del principio di specialità postula che la violazione
amministrativa in astratto contestabile costituisca un elemento del
fatto-reato, essendone parte integrante (Cass. Civ., Sez. I, 10
dicembre 2003, n. 18811, m. 568.742; Cass. Civ., Sez. I, 6 aprile 2004,
n. 6769, m. 571.896).
Ciò posto, è evidente come, in relazione al caso
in esame, non sia ravvisabile alcun concorso apparente di norme tra la
disposizione di cui all'art. 163 del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490,
esattamente applicata, e le altre disposizioni invocate dal ricorrente,
soprattutto perché nessuna di queste sembra in astratto
applicabile nella specie.
Quanto alla disposizione di cui all'art. 26 del d.l. 30 dicembre 1923,
n. 3267, può osservarsi che essa è dettata a
protezione del vincolo idrogeologico e di altri simili interessi
(difesa dalla caduta di valanghe, sassi, furia dei venti, oltre che
difesa delle condizioni igieniche locali e difesa militare) e sanziona
il fatto di chi danneggi piante o comunque arrechi altri danni nei
boschi vincolati per scopi idrogeologici o per gli altri scopi indicati
e ciò in violazione delle prescrizioni impartite dalle
competenti autorità.
L'art. 163 del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (ora art. 181 d.lgs. 22
gennaio 2004, n. 42), invece, è dettato a tutela degli
interessi paesaggistici ed ambientali, e segnatamente alla salvaguardia
del bosco nel suo valore estetico-ambientale, e sanziona il fatto di
chi esegua lavori di qualsiasi genere su beni ambientali senza la
prescritta autorizzazione o in difformità di essa, a
prescindere dal fatto che arrechi o meno un danno o un pregiudizio.
Quanto all'art. 54 del d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267, anch'esso
persegue la finalità di salvaguardare il vincolo
idrogeologico (o gli altri interessi indicati) e sanziona proprietario
dei terreni rimboschiti per effetto dello stesso decreto legge che
effettui sugli stessi la coltura agraria o effettui il pascolo secondo
modalità diverse da quelle previste o comunque compia le
operazioni di governo boschivo in difformità del piano di
coltura e conservazione approvato.
Quanto all'art. 1 della legge 9 ottobre 1956, n. 950, infine, esso
sanziona la violazione delle norme di polizia forestale contenute nei
regolamenti di cui all'art. 10 del d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267.
Pertanto, almeno secondo quanto risulta dalle sentenze di merito, non
si ravvisano nel fatto come contestato gli elementi per sussumerlo
nelle fattispecie di cui agli artt. 26 o 54 d.l. 30 dicembre 1923, n.
3267, o all'art. 1 legge 9 ottobre 1956, n. 950.
E' quindi esclusa ogni possibilità di concorso apparente di
norme e di applicazione del principio di specialità.
Il terzo ed il quarto motivo - che possono essere congiuntamente
esaminati - sono anch'essi infondati. Va innanzitutto osservato che
sono irrilevanti tutte le considerazioni relative alla nozione
naturalistica o normativa di bosco, alla sua mancata definizione
legislativa da parte della regione Abruzzo, e alla
qualificabilità come bosco del terreno in questione. Nel
caso di specie, infatti, i giudici del merito hanno ravvisato la
sussistenza del vincolo ambientale non perché si trattasse
di un bosco bensì perché si trattava di terreno
sottoposto a vincolo di rimboschimento. L'art. 146 del d.lgs. 29
ottobre 1999, n. 490 (ora art. 142 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42),
infatti, alla lett. G), inserisce tra i beni ambientali tutelati per
legge, oltre i territori coperti da foreste e da boschi, anche quelli
sottoposti a vincolo di rimboschimento. L'art. 142 del d.lgs. 22
gennaio 2004, n. 42, specifica ora alla lett. G) che sono soggetti a
tutela ambientale «i territori coperti da foreste e da
boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli
sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall'articolo 2,
commi 2 e 6, del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 227».
L'art. 2 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 227, poi, prevede nel comma 2
che entro dodici mesi le regioni stabiliscano per il territorio di loro
competenza la definizione di bosco (ed in particolare i valori minimi
di larghezza, estensione e copertura), e nel comma 3 che sono
assimilati al bosco, tra gli altri, «i fondi gravati
dall'obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa
idrogeologica del territorio, qualità dell'aria,
salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione della
biodiversità, protezione del paesaggio e dell'ambiente in
generale». Il successivo comma 6 del medesimo art. 2,
peraltro, stabilisce quali sono le caratteristiche che devono
presentare i terreni per essere qualificati come bosco nelle more della
emanazione delle norme regionali di cui al comma 2, e ribadisce che
«sono altresì assimilati a bosco i fondi gravati
dall'obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa
idrogeologica del territorio, qualità dell'aria,
salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione della
biodiversità, protezione del paesaggio e dell'ambiente in
generale».
Ora i giudici del merito, con un apprezzamento di fatto adeguatamente e
congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, hanno
accertato che terreno in questione era appunto gravato dall'obbligo di
rimboschimento per le finalità di protezione dell'ambiente e
del paesaggio in generale (ripristino cava). Del tutto esattamente,
quindi, è stato ritenuto che il terreno in questione, in
quanto gravato dal detto vincolo, rientrasse tra i beni soggetti a
tutela ambientale di cui agli artt. 146 dlgs. 29 ottobre 1999, n. 490,
e 142 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.
Nemmeno ha pregio la censura secondo cui il terreno de quo non potrebbe
ritenersi soggetto a vincolo di rimboschimento a norma delle
disposizioni citate perché non presenterebbe i valori minimi
di larghezza, estensione e copertura necessari affinché
un'area sia considerata come bosco ai sensi del citato art. 2, comma 6,
del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 227, ed in particolare non avrebbe una
«estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza
media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per
cento, con misurazione effettuata dalla base esterna dei
fusti». E ciò per due ragioni. Innanzitutto,
perché la disposizione in esame riferisce questi requisiti
soltanto alle formazioni vegetali ed ai terreni su cui esse sorgono al
fine della loro qualificazione come boschi e non anche ai fondi gravati
dall'obbligo di rimboschimento, per la cui assimilazione ai boschi non
occorre anche la presenza dei detti requisiti, essendo sufficiente la
presenza del provvedimento amministrativo o della disposizione
normativa che abbia imposto il vincolo di rimboschimento per una delle
finalità indicate. In secondo luogo, perché,
quand'anche dovesse ritenersi che i detti requisiti siano necessari
anche per i terreni soggetti a vincolo di rimboschimento, i giudici del
merito, anche qui con apprezzamento di fatto adeguatamente e
congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, hanno
accertato che i requisiti stessi nella specie erano presenti dal
momento che il terreno aveva una superficie di circa 5.000 mq. ed una
larghezza di 20 m.
II quinto motivo si risolve in una censura in punto di fatto della
decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa
valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del
merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed
è comunque infondato perché la corte d'appello ha
fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione, scevra da errori
giuridici o salti logici, sulle ragioni per le quali ha ritenuto
sussistente l'elemento psicologico del reato (essendo l'imputato ben
consapevole del vincolo esistente sul terreno ed avendo egli ordinato
l'aratura del terreno) ed ha ritenuto inverosimile la tesi difensiva
secondo cui l'estirpazione delle piantine sarebbe stata determinata da
un gregge di pecore e non dalle operazioni di aratura. Ha invero
osservato la corte d'appello, da un lato, che in realtà non
era stata acquisita nessuna prova concreta sulla effettiva preventiva
distruzione delle piantine e, da un altro lato, che appare
assolutamente inverosimile ed illogico il comportamento del
proprietario di un terreno che, avvertito delle distruzione delle
piantine di sua proprietà e pur a conoscenza del vincolo
gravante sul terreno, non sporga immediatamente denuncia all'organo
competente al quale sa bene di dover rendere conto della piantagione,
così come era inverosimile che l'imputato (come accertato)
non si fosse recato sui luoghi per accertare il danno o comunque
nemmeno avesse inviato un suo incaricato rimanendo nella totale
ignoranza dello stato dei luoghi.
In conclusione, sulla base delle considerazioni svolte, le statuizioni
civili della sentenza impugnata devono essere confermate con condanna
del ricorrente al rimborso delle spese processuali del grado in favore
della parte civile, che si liquidano come in dispositivo.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato
è estinto per prescrizione.
Conferma le statuizioni civili e condanna il ricorrente alla refusione
in favore della parte civile delle spese del grado, che liquida in
complessivi € 1.700,00, di cui 1.500,00 per onorari, oltre
spese generali ed accessori di Legge.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di
Cassazione, il 7 giugno 2006
Il consigliere
estensore
Il presidente
Amedeo
FRANCO
Ernesto LUPO
Beni Ambientali. Vincolo di rimboschimento
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