Cass. Sez. III n. 36602 del 16 dicembre 2020 (UP 20 nov 2020)
Pres. Marini Est. Mengoni Ric. Riccio
Caccia e animali.Differenza tra uccellagione e caccia con mezzi vietati

La linea di demarcazione tra l'uccellagione e la caccia con mezzi vietati è rappresentata dalla possibilità, insita solo nella prima, che si verifichi un indiscriminato depauperamento della fauna selvatica a causa delle modalità dell'esercizio venatorio ed in considerazione della particolarità dei mezzi adoperati.


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 30/11/2018, il Tribunale di Benevento dichiarava Germano Riccio colpevole della contravvenzione di cui all’art. 30, lett. e-h), l. 11 febbraio 1992, n. 157 e lo condannava alla pena di millecinquecento euro di ammenda; allo stesso era contestato di aver esercitato l’uccellagione e catturato animali di specie protetta.
2. Propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, deducendo – con unica censura – l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 30, lett. e), citato. Alla luce delle risultanze istruttorie e della costante giurisprudenza di legittimità, il fatto ascritto al Riccio dovrebbe esser inquadrato nella cornice dell’art. 30, lett. h), l. n. 157 del 1992, quale ipotesi di caccia con mezzi vietati; dalla deposizione dell’ufficiale di p.g. escusso, infatti, emergerebbe che il sistema di cattura rinvenuto sarebbe movibile, che solo una delle due gabbiette sarebbe stata utilizzata come richiamo e che questo – costituito da esca viva – sarebbe stato atto ad attirare esclusivamente uccelli della specie cardellini, con esclusione, quindi, della contestata uccellagione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso – che concerne soltanto la fattispecie di cui all’art. 30, comma 1, lett. e) (uccellagione), l. n. 157 del 1992, non anche quella ex lett. h) (cattura di fringillidi in numero superiore a cinque), pur riconosciuta - risulta manifestamente infondato.
4. Questa Corte, con costante indirizzo qui da ribadire, ha più volte affermato che l'uccellagione è vietata dall'art. 3 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, unitamente alla cattura di uccelli e di mammiferi selvatici, nonché al prelievo di uova, nidi e piccoli nati. Chi esercita una di tali attività è punito, a norma dell'art. 30, comma 1, lett. e), stessa legge, con la pena fino a un anno di arresto o, in alternativa, con l'ammenda.
5. La legge in materia opera la distinzione tra uccellagione ed altre forme di caccia, con riferimento esclusivo al mezzo usato e non alla destinazione delle prede catturate. Costituisce perciò uccellagione qualsiasi atto diretto alla cattura di uccelli con mezzi diversi da armi da sparo (reti, panie, ecc.), avendo il legislatore inteso sanzionare in modo specifico un sistema di cattura che ha, in genere, una potenzialità offensiva più indeterminata e comporta maggior sofferenza biologica per i volatili (tra le molte, Sez. 3, n. 7861 del 12/1/2016, Vassalini, Rv. 266278). A tali conclusioni, che il Collegio condivide, si è pervenuti sulla base dell'analisi del sistema normativo desumibile dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157, secondo il quale, nell'ambito di un generico concetto di caccia o attività venatoria, comprendente ogni atto diretto alla uccisione o alla cattura di selvaggina mediante l'impiego di armi, di animali o di arnesi a ciò destinati, la legge distingue un'attività venatoria o caccia in senso stretto, comprendente "ogni atto diretto all'abbattimento o alla cattura di fauna selvatica mediante l'impiego" di armi (art. 12, comma 2, legge n. 157 del 1992), e l'attività di uccellagione. Questa distinzione, dunque, non attiene soltanto all'oggetto (che nella prima è ogni tipo di fauna selvatica, ad eccezione di talpe, ratti, topi e arvicole di cui all'art. 2, comma 2, L. 157 del 1992 e nella seconda è solo ogni genere di uccelli), ma anche ai mezzi adoperati: nella caccia si impiegano le armi da sparo, nella uccellagione qualsiasi altro mezzo. Con la conseguenza – sostenuta da diffusa e condivisa giurisprudenza – che ricorre il reato di uccellagione, quando: a) vi sia impiego non momentaneo di strumenti fissi, diversi dalle armi da sparo; b) la potenzialità offensiva di detti strumenti sia ampia ed indiscriminata, con pericolo, quindi, di depauperamento, anche se parziale, della fauna selvatica (per tutte, Sez. 3, n. 11350 del 10/2/2015, Ungaro, Rv. 262808). Sul punto, peraltro, è stato anche precisato che non è necessario che sia predisposto un complesso sistema di reti, essendo sufficiente ad integrare il reato anche l'adozione di congegni rudimentali e di limitata grandezza, pure essi idonei, in determinate condizioni, ad una indiscriminata cattura di uccelli.
Ne consegue, in sintesi, che la linea di demarcazione tra l'uccellagione e la caccia con mezzi vietati (qui invocata dal ricorrente) è rappresentata dalla possibilità, insita solo nella prima, che si verifichi un indiscriminato depauperamento della fauna selvatica a causa delle modalità dell'esercizio venatorio ed in considerazione della particolarità dei mezzi adoperati.
6. Tanto premesso in termini generali, ritiene il Collegio che la sentenza impugnata abbia fatto buon governo di questi principi, ravvisando la fattispecie di cui all’art. 30, comma 1, lett. e) in esame – e non quella di caccia con mezzi vietati di cui alla successiva lett. h) - sul presupposto che quelli utilizzati dal ricorrente (rete, picchetti, aste reggi-rete) “erano senz’altro idonei, nel momento in cui venivano fissati, ad assicurare una indiscriminata cattura di uccelli di specie protetta”, senza potersi assegnare alcun rilievo al fatto che potessero esser rimossi dopo l’impiego, e che la specie suscettibile di cattura fosse solo quella dei fringillidi (quel che, peraltro, la sentenza afferma in ragione della sola tipologia del richiamo vivo pacificamente utilizzato, non delle caratteristiche della rete rinvenuta).
7. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.



P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2020